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Speak No Evil: La Recensione

Arriva nelle sale il remake dell'omonimo film danese “Speak No Evil”, del 2022, questa volta in versione americana e più semplicistica.



TRAMA



La storia è la stessa del film di Christian Tafdrup: Paddy, Ciara e il loro figlio Ant invitano la famiglia Dalton, conosciuta qualche tempo prima in vacanza, nella loro tenuta in mezzo alla natura, per passare un piacevole weekend in compagnia. Ma i padroni di casa si rivelano sempre più sgradevoli e inquietanti…



RECENSIONE



Non è ben chiaro il motivo di questa rivisitazione, riuscita a metà, a soli due anni dall'uscita del film originale. Forse un po' di presunzione.



Ciò che distingue questo nuovo film, diretto da James Watkins, sono gli intenti: il suo predecessore è già diventato un classico dell'horror, una metafora satirica sull'accoglienza e la cortesia, quando forzate e innaturali. La tensione cresce lentamente, i personaggi ci fanno dubitare e sentire a disagio: i protagonisti, ospiti di una famiglia dagli atteggiamenti sempre più molesti e sospetti, non sanno come comportarsi e come tornare a casa senza risultare maleducati. Quello che doveva essere un fine settimana rilassante e divertente si trasforma in un incubo che sembra punizione divina, la penitenza per coloro che non sono sinceri, gli snob, gli accomodanti. Un'aura quasi mistica accompagna questa storia dai risvolti anche politici: una famiglia è danese, l'altra olandese, due paesi da sempre cugini e rivali (e non sembra quindi essere un caso che nel film danese, la famiglia di psicopatici sia quella olandese).



In questa nuova versione, invece, vediamo una coppia americana e una inglese, ma la parabola politica svanisce per lasciare il posto a giusto qualche battuta che non desta troppo scalpore. Gli attori sono come sempre bravissimi, con un James McAvoy isterico e strabordante, imprevedibile ed estremo. Il ragazzo che interpreta il figlio Ant (il talentuoso Dan Hough), inoltre, quasi regge tutto il film e la sua credibilità. È inquietante, espressivo, ogni sua scena trasmette malessere. Al contrario, il padre Ben è una figura totalmente scolorita, calpestata da tutti gli altri personaggi (prima fra tutti la moglie, forse simbolo di un femminismo mal riposto) che nemmeno riesce a trovare un riscatto degno di questo nome. Tutti i personaggi di Watkins sono comunque meno passivi di quelli che vediamo nell'originale, hanno una storia personale più complessa ed elaborata, forse troppo. I bambini sono svegli, hanno entrambi una parte fondamentale per lo sviluppo della storia; i genitori ci coinvolgono nelle loro storie passate, e tutto risulta più esagerato. Se possibile, la tensione è più alta di quella presente nel film danese, il clima è esasperato dal principio e le vicissitudini esagerate: ma, se non fallisce nel farci venire i brividi, il risultato è invece meno credibile e plausibile. Il vero cambiamento sta però nell'intento finale, come già anticipato: il film che troviamo nelle sale in questi giorni è tutto sommato un buon thriller: avvince, incuriosisce e ci fa provare gelo e inquietudine a volontà. Tuttavia, manca laddove il suo predecessore eccelleva: nella riflessione filosofica. Prima la storia addossava sulle spalle dello spettatore una morale sociologica molto più approfondita, mentre ora il finale è decisamente stravolto. Quello che ci ritroviamo a guardare non sembra più un remake, ma un film totalmente diverso: un thriller valido, certo, ma niente di innovativo o troppo impegnato. La morale che ci urlano in faccia è approssimativa e poco consistente. Regala brivido senza troppo impegno.



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11 settembre alle 14:31