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The Watchers, la recensione: un buonissimo esordio, ambizioso e libero

Evitiamo subito di perderci in ridondanze e banalità, dichiarando preventivamente – se qualcuno non l'avesse ancora capito – che The Watchers è l'esordio alla regia di Ishana Night Shyamalan – alla regia cinematografica, poiché già aveva esordito nella serie tv Servant. Il padre, regista e autore ormai consacrato e talmente influente nel genere fantasy-thriller-horror da reinventarlo e costruire un genere proprio, è il produttore di questo film, che senza dubbio risente dell'influenza paterna ma andrebbe immediatamente affrancato da questo semplicistico paragone.



Come il titolo suggerisce, The Watchers non è un classico horror da urla e jump scare, è a tutti gli effetti un film horror concettuale che si presta a diversi piani di lettura. Un gruppo di dispersi sono costretti a rifugiarsi dentro una stanza a specchio dove non possono osservare ma vengono osservati da alcune misteriose creature che affondano le radici nella mitologia irlandese più ancestrale: c'è Alfred Hitchcock, c'è Shyamalan padre, c'è Jordan Peele con il suo Us per il tema del doppio, c'è George Orwell e c'è in particolare una riflessione a doppio fondo sul cinema, sulla fredda emulazione dell'intelligenza artificiale e sul problema – questo invece tutto umano – dello sguardo.



A causa di un materiale narrativo difficile da contenere, ma anche dell'inesperienza in sceneggiatura, l'autrice cade spesso in eccessivi didascalismi nel tentativo di spiegare le complessità della trama e delle convergenze di cui sopra, dimenticandosi paradossalmente che, allo stesso modo di ciò che accade nel suo film, lo spettatore osserva e capisce. Queste piccole e decisive ingenuità non macchiano però il fascino oscuro e vivace dell'esordio di Ishana, che approda con ambizione in un genere ibrido non affatto semplice da gestire e dimostra di saper costruire il proprio mondo diegetico con ardore e gusto del divertimento.



Ciò che impressiona maggiormente è l'abilità registica della ragazza, che indugia quasi morbosamente sulla protagonista – una Dakota Fanning che sa raccontare tutto senza farlo esplicitamente, come sa fare solo una grande attrice – e non si contiene nell'avvicinarsi all'orrore e all'inquietudine, ma allo stesso tempo è bravissima nel giocare con le distanze e con le panoramiche ampie che sottendono la sospensione labirintica della dispersione fisica e psicologica dei personaggi. Qualcuno grida al plagio e all'emulazione, noi piuttosto sussurriamo alla promessa, quella di una nuova autrice imponente e piacevolmente spericolata.



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8 giugno alle 12:40