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Kinds of Kindness, la recensione da Cannes: Lanthimos recupera la cattiveria degli esordi

La carriera di Yorgos Lanthimos, dopo essere iniziata con opere stranianti di non semplice comprensione, ha conosciuto da poco una ribalta mondiale, anche per la sua stessa volontà di aprirsi ad un pubblico più ampio, senza perdere la propria cifra stilistica ma edulcorando alcune soluzioni di scrittura e di messa in scena. Dopo il trionfo a Venezia e agli Oscar, l'autore greco ha guadagnato molti ammiratori e di conseguenza il suo nome, in questa edizione del Festival di Cannes, è tra i più prestigiosi. Chi si aspettava un'opera in continuità con quella più recente potrebbe tuttavia rimanere deluso, poiché Lanthimos è tornato a fare un cinema viscerale e scomodo, cinico e spiazzante.



La trama del film si articola in tre episodi tra loro apparentemente scollegati, all'interno dei quali recitano però gli stessi interpreti in ruoli sempre differenti. Lo stile con il quale le storie si sviluppano è di fatto quello che nelle scuole insegnano a non utilizzare, ovvero completamente slegato dal senso e dalla classica struttura drammaturgica di un film, con un climax (de)crescente che di fatto è un anti climax e la solita musica inquietante e minacciosa a puntellare le azioni insane dei personaggi. Il talismano e la bussola del regista è il corpo della fedelissima Emma Stone – che infatti in conferenza stampa racconta di aver lavorato molto più sui movimenti che sulle parole o sull'intellettualizzazione delle vicende -, che si sdoppia, si sballa e balla una danza che stavolta provoca davvero ed è solo illusoriamente modaiola.



Il “doppio” è presente in tutti gli episodi come dualismo irrisolto, significato insignificante, moltiplicazione che sottrae, controllo che scompiglia, il sogno – inteso sia come fantasia che come sonno vero e proprio – è premonitore e quasi divinatorio – specialmente nella terza storia, dove c'è una specie di rito purificatore di una setta (para) religiosa che si disseta solo con l'acqua proveniente dalle lacrime di chi non è contaminato -, ma il faro più luminoso e al contempo il lato più oscuro del film è nell'identificazione tra uomo e bestia, tema portante e ossessivo dell'Opera di Lanthimos eppure qui ancora più lucidamente decisivo e ambivalente: la normalizzazione dell'insensato, dell'incompiuto, dell'improprio avvengono tramite l'abbandono del razionalismo ma non della razionalità, dell'abitudine forzata ma non del rituale e della sacralità, dell'ordine ma non della disciplina.



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Non che Lanthimos non funzioni anche quando furbamente utilizza le medesime armi per produrre uno schema più leggibile e a favor di pubblico, ma in film come Kinds of kindess la sua potenza come autore è nettamente più incisiva – ecco che tornano insieme cattiveria e cattività, le asfissianti inquadrature a mezzo viso che impazzavano in Dogtooth e il sesso come sfogo e malattia, (dis)piacere conturbante e non affatto sensuale o voyeuristico. L'elemento aggiunto rispetto al passato degli esordi, oltre all'evidente maturazione artistica e nella regia, è il talento (auto) scoperto nelle trovate di commedia surreale, che paradossalmente affondano invece di attutire, e il risultato di tutto ciò si vede nel fatto che già a Cannes il film non si riesca a definirlo un capolavoro a reti unificate, e che nessun movimento contemporaneo di sensibilizzazione riesca a farne un simbolo di “lotta” per i social network. Bentornato Yorgos.



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18 maggio alle 18:40