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Il terzo capitolo della saga di Silent Hill prosegue il percorso del suo diretto predecessore, Silent Hill 2, nell’intrecciare atmosferico orrore corporeo e introspezione psicologica e di più: se Silent Hill 2 era una parabola scritta da Dostoevskij sull’accettare le colpe delle nostre azioni, Silent Hill 3 è un possibile racconto di Zulawski su di un corpo che cresce.
Dico questo fin dall’inizio perché nell’opinione comune Silent Hill 3 avrebbe perso quella componente psicologica che contraddistingue il precedente capitolo della saga, ritornando ad un “puro” horror come era il primo Silent Hill. Niente di più sbagliato. Silent Hill 3 narra dell’essere un’adolescente ad inizio anni 2000, con le paure, le ansie e le voglie tipiche di quell’età (e infatti il gioco inizia non a caso in un centro commerciale, dopo il sogno iniziale).
Ma tutto il gioco è un continuo ritornare su tematiche come la maternità, nel suo aspetto più corporeo: il sangue; l’essere negli anni di transito fra l’infanzia e l’età adulta, e allora si vorrano dimenticare gli aspetti bambineschi che ancora ci caratterizzano, ma che inconsciamente non ci abbandonano (il sogno iniziale…). Inoltre Silent Hill 3 ci presenta un distorto complesso di Elettra: solo dopo la morte del padre Heather riuscirà a capire chi è veramente, e a rifiutare un destino non suo, ma la morte del padre non è stata a causa sua…
L’avventura di Heather non è che un racconto su come crescere in un’era di grande disagio, come fu quella a cavallo fra fine anni ‘90 e inizio 2000, dal punto di vista femminile; e l’atmosfera è costruita magistralmente: il gioco, in un connubio perfetto fra aspetto visivo e musicale, si presenta come un inferno industrial in cui neppure il silenzio sarà capace di farci rilassare.
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